I migranti nelle strutture religiose di Roma? Le suore: “Basta volerlo”

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GIUSTIZIA E PACE| 12/05/2015| “Con tutte le comunità religiose presenti a Roma, se ognuno prendesse in carico qualche rifugiato qualche piccolo passo in avanti potrebbe esserci”. A fare da eco alla “provocazione” del prefetto di Roma, Franco Gabrielli, che nei giorni scorsi ha sollecitato gli istituti religiosi a fare la propria parte nell’accoglienza, è suor Maria Cristina Gavazzi, superiora provinciale della congregazione delle suore di San Giuseppe di Chambery. Nel complesso conventuale di via del Casaletto a Roma, nel dodicesimo municipio, le suore hanno rimesso a nuovo una struttura, “la casa di campagna”, e l’hanno destinata all’accoglienza dei rifugiati. Una soluzione di seconda accoglienza gestita insieme al Centro Astalli. Un’esperienza positiva, spiega Gavazzi, che “se lo si vuole, si può fare”.

Quattro i giovani rifugiati del Gambia accolti in una struttura che ha una storia di accoglienza che arriva fino alla seconda guerra mondiale. “L’accoglienza di questi rifugiati è una cosa recente – spiega Gavazzi -, ma rientra appieno nello spirito della nostra congregazione perché già ci sono esperienze di accoglienza fatte in tempi passati, a cominciare da quella durante la seconda guerra mondiale quando le suore di via Casaletto ospitarono circa 150 ebrei”. La volontà di dedicare parte delle proprie risorse e delle proprie strutture al tema dell’accoglienza, però, è stata presa in tempi non sospetti. “Ancora prima che scattasse questa fortissima emergenza – spiega suor Maria Cristina Gavazzi – , durante il capitolo generale nel 2009 una delle priorità sollevate è stata l’attenzione ai rifugiati e agli immigrati. Il Centro Astalli è stato il canale privilegiato per accogliere questi quattro giovani rifugiati qui nel nostro complesso”.

I quattro rifugiati accolti vivono nel complesso conventuale, spiega suor Cristina, ma “hanno una loro completa autonomia: si preparano il cibo, si occupano delle pulizie. Sono quattro giovani che già lavorano. Uno fa il panettiere, mentre un altro lavora in una azienda di servizi”. La scelta di destinare parte della propria residenza all’accoglienza, però, ha avuto dei costi, che la congregazione ha affrontato con decisione. “Abbiamo messo a norma gli impianti e reso gli ambienti vivibili. Li abbiamo arredati, ma non abbiamo fatto cose straordinarie – spiega -. Certo è pesato sul bilancio, ma si è trattato di una spesa che si poteva affrontare. Avremmo potuto investire questi soldi altrove, ma abbiamo voluto e desiderato di destinare questa porzione di fondi proprio in favore dei rifugiati”. In termini di tempo, infine, la presenza dei rifugiati non è gravata sulle attività del convento. “Anche se non li seguiamo direttamente, le consorelle non sono assenti – spiega -. Tuttavia, la responsabilità diretta è affidata ad un tutor del Centro Astalli”.

Gli spazi da destinare all’accoglienza, però, non sempre sono così scontati. Come racconta, invece, Suor Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana e postulatrice delle cause dei santi per due consorelle. Da anni impegnata con le vittime di tratta e con i migranti nei Cie, vive a Roma, nella casa generalizia delle suore missionarie comboniane. Una sede che non ha gli stessi spazi dell’ex casa generalizia dove risiedevano le missionarie, struttura venuta e destinata proprio all’accoglienza. “La nostra ex casa generalizia di via Boccea, adesso è il Centro Enea dove ci sono 400 rifugiati – spiega suor Maria Venturelli -. Siamo contenti che la nostra ex casa sia stata utilizzata per questo. L’abbiamo ceduta perché per noi era troppo grande e ne abbiamo presa una più piccola, dove non abbiamo tanto spazio”.

Non è solo una questione di spazio quando si parla di difficoltà nell’accoglienza da parte delle tante case generalizie presenti a Roma. “La casa generalizia è in funzione del consiglio generale che lavora su più di quattro continenti dove siamo presenti – spiega -. Non siamo disponibili a tempo pieno per i migranti, a cui dedico uno spazio del mio tempo libero”. Tuttavia, le missionarie hanno fatto uno sforzo per rispondere all’appello di papa Francesco di aprire le proprie strutture all’accoglienza dei migranti. “Come comunità, in risposta all’appello fatto nel 2013, abbiamo messo a disposizione una stanza per una persona e ad oggi abbiamo accolto due migranti”. Tuttavia, tra le varie realtà religiose presenti nella capitale, secondo Venturelli, manca un coordinamento per poter gestire al meglio una possibile accoglienza diffusa all’interno delle diverse congregazioni. “Quello che ho visto è che non c’è molta organizzazione per coordinare gli istituti che mettono a disposizione una stanza per i migranti – spiega -. Mi sembra ci sia un po’ di confusione: ad oggi manca un punto di riferimento e lanciare appelli non serve a niente se non c’è un’azione concreta che organizzi gli interventi”.

Per don Pierpaolo Felicolo, direttore dell’ufficio Migrantes della diocesi di Roma, nella capitale qualcosa si sta muovendo e sono tante, anche se piccole, le esperienze che rispondono ancora oggi all’appello del papa del 2013. “Qualcosa si è cominciato a fare – spiega -. Certo, non è semplice, ma ci sono conventi che si stanno attrezzando. I padri Scalabriniani, per esempio, da ottobre stanno lavorando per aprire un centro per i rifugiati. Ci sono altre case che hanno dato disponibilità. L’appello del papa, per noi, è un richiamo costante”. Nonostante non ci sia una vera e propria regia, per chi volesse accogliere nella propria struttura religiosa, le possibilità non mancano. “Si può contattare il Centro Astalli, l’ufficio Migrantes, la Caritas, oppure la Comunità di Sant’Egidio – spiega Felicolo -. Tra di noi c’è un confronto continuo e c’è un coordinamento informale. Quello che vedo, però, è che non è semplice. Bisogna attrezzarsi bene e fare tutto a norma”. Sulla provocazione di Gabrielli, sugli istituti più attenti ai possibili ricavi dell’accoglienza per il Giubileo che a favore dei migranti, Felicolo smorza i toni. “A Roma c’è sempre una costante attenzione verso l’accoglienza – spiega -. Ci sono tante piccole realtà che si aprono, ma non è una cosa che accade da un giorno all’altro. È un impegno.  Dalla comunità ecclesiale c’è attenzione e preoccupazione per questa situazione, ma di voglia di fare ce n’è”.

Fonte: redattoresociale.it, 07/05/2015

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