Noi, suore, con il Vangelo tra i profughi

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16/12/2015 | TESTIMONIANZE – Accanto ai profughi in una Giordania che ne accoglie più di 1,4 milioni. Provengono dalla Siria e dall’Iraq, dai territori palestinesi e dal Sudan. Fuggono dalla guerra, dalla fame e dall’intolleranza religiosa. Fra questi, il giovane iracheno Mohammed è riuscito a sopravvivere alle torture e alle sevizie della guerra, che gli ha lasciato come triste eredità la morte violenta del padre e dei fratelli, e ha trovato rifugio in Giordania. Solo, senza speranza e senza sostegno, ad Amman ha avuto la fortuna di incontrare le missionarie comboniane alle quali ha confessato di essere pronto a tutto, anche a vendere un rene, per recuperare i soldi necessari per il viaggio prima in Turchia e poi in Europa. E, forse, chiudere così i conti con quel passato/presente che lo perseguita.

«La nostra comunità – affermano le religiose – vive in questa realtà complessa e nella quotidianità cerca di vedere in ognuno la presenza del Signore. Riconosciamo in loro il volto di Gesù Crocifisso e nelle loro storie, attraverso la preghiera e la carità, tentiamo nel nostro piccolo di far nascere segni di speranza e resurrezione». Le suore comboniane sono presenti in Giordania dal 1939 e operano ad Amman, dove c’è la sede della provincia della Congregazione in Medio Oriente, e all’ospedale italiano di Kerak. Il loro ministero si rivolge principalmente ai rifugiati al centro di un’area flagellata dai conflitti.

Nella capitale, in collaborazione con il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS), portano una preghiera e una parola di conforto alle famiglie. Il popolo iracheno è quello più colpito dalle persecuzioni religiose (minacce di morte e rapimenti) dell’Isis: «Alcuni riescono a scappare con tutta la famiglia ma altri arrivano soli qui: vedove, bambini, giovani abbandonati al loro destino». Le comboniane cercano di portare aiuti materiali (cibo, indumenti, medicine, denaro per le visite mediche o per l’istruzione dei bambini), attraverso la collaborazione caritatevole di benefattori locali o di associazioni e parrocchie di altri Paesi, «che rispondono – spiega suor Claudia Galli – con generosità ai nostri appelli davanti a questa immane tragedia».

Chi non risiede nei campi profughi gestiti dall’Onu non ha diritto a un’assistenza sanitaria gratuita e arriva a pagare affitti mensili molto cari, anche quando si parla di tuguri piccoli e sporchi: «La situazione per queste famiglie è davvero critica: a volte ci troviamo davanti a persone che cercano il cibo nell’immondizia per sopravvivere». Il popolo giordano è a maggioranza musulmana con una piccola percentuale di cristiani (greco-ortodossi, cattolici di rito latino, copto e melchita): le suore partecipano così al Rosario nelle case o alle liturgie eucaristiche di rito caldeo e melchita. «Condividiamo i loro problemi, le loro sofferenze ma anche la loro fede. Molti sono cristiani fuggiti non solo dalla guerra ma anche dalle persecuzioni. La loro preghiera e la loro fede ci edificano molto; spesso ci ripetono: “Abbiamo perso tutto ma non il Signore Gesù”». Purtroppo la situazione in cui si muovono non è delle migliori. «Siamo consapevoli – concludono – che la situazione, all’apparenza tranquilla, è molto fragile e può degenerare in ogni momento. Ciò che ci dà coraggio e fiducia è sapere che il Signore è con noi e non abbandona mai i suoi figli e le sue figlie, anche nei momenti più difficili e bui della storia. La sua Parola illumina i nostri passi e il nostro cammino e ci aiuta ad essere piccoli segni del suo amore e della sua misericordia qui in terra giordana».

Fonte: Vatican Insider, 11/12/2015

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